In questi giorni di “riposo forzato” dovuto alle misure restrittive
a seguito del rischio contagio dal virus Coviid-19, mi sto dedicando alla
lettura (o, in alcuni casi rilettura) di numerosi libri tra i quali, il
famosissimo romanzo di Umberto Eco “Il nome della rosa”, edito per la prima
volta da Bompiani nel 1980.
Per chi non lo sapesse, l'opera è ambientata sul finire dell'anno
1327, e la vicenda narrata si svolge all'interno di un monastero benedettino
del Piemonte ed è suddivisa in sette giornate, scandite dai ritmi della vita
monastica.
Il romanzo è stato tradotto in oltre quaranta lingue con oltre cinquanta
milioni di copie vendute in trent'anni e ha ricevuto diversi premi e
riconoscimenti.
Di questo romanzo è stato tratto un film nel 1986 diretto da
Jean-Jacques Annaud e una recentissima serie televisiva in quattro puntate.
Proprio ieri pomeriggio, mentre lo leggevo, sono incappato in alcune
pagine che mi hanno fatto riflettere non poco in quanto, con parole chiare e
semplici, l’autore espone l’argomento della pedofilia all’interno dei
monasteri.
A scanso di equivoci, desidero chiarire sin d’ora che io sono cattolico,
credente e praticante (o almeno faccio il possibile per esserlo, con tutti i
miei umani limiti).
Ma quando si parla di pedofilia nella chiesa mi trovo sinceramente
spiazzato anche perché ritengo che un male così profondo debba essere estirpato
alla radice. Soprattutto mi sono sempre chiesto, forse ingenuamente, come mai
alcuni sacerdoti che non riescono a mantenere il voto di castità, si dedichino
a una turpe pratica come questa piuttosto che andare a cercare un affetto o una
sessualità con una donna.
Preferisco per il momento fermarmi qui e far parlare Umberto Eco citando
un breve passo proprio tratto dal “Il Nome della Rosa”.
Saranno gradite opinioni e consigli che però, lo dico subito,
dovranno comunque essere scritte nel pieno rispetto delle persone coinvolte e
delle istituzioni. Non saranno accettate critiche o denunce nei confronti di
persone specifiche (per questo ci sono le forze dell’ordine e i tribunali).
Ecco il passaggio che mi ha colpito:
“Berengario era
consumato, ormai molti tra i monaci lo sapevano, da un’insana passione per
Adelmo, la stessa passione i cui nefasti la collera divina aveva colpito a
Sodoma e Gomorra.
Così Bencio si
espresse, forse per riguardo alla mia giovane età.
Ma chi ha vissuto la
propria adolescenza in un monastero sa che, ancorché si sia mantenuto casto, di
tali passioni ha ben sentito parlare, e talora ha dovuto guardarsi dalle
insidie di chi ne era schiavo.
Monacello com’ero non
avevo già ricevuto io stesso, a Melk, da un monaco anziano, cartigli con versi che
di solito un laico dedica a una donna?
I voti monacali ci
tengono lontani da quella sentina di vizi che è il corpo della femmina, ma
spesso ci conducono vicinissimi ad altri errori. Posso infine nascondermi che
la mia stessa vecchiaia è ancora oggi agitata dal demone meridiano quando mi
accade di attardare il mio sguardo, in coro, sul volto imberbe di un novizio,
puro e fresco come fanciulla?
Dico queste cose non
per mettere in dubbio la scelta che ho fatto di dedicarmi alla vita monastica,
ma per giustificare l’errore di molti a cui questo santo fardello risulta
pesante. Forse per giustificare il delitto orribile di Berengario.
Ma pare, secondo
Bencio, che questo monaco coltivasse il suo vizio in modo ancora più ignobile,
e cioè usando le armi del ricatto per ottenere da altri quanto la virtù e il
decoro avrebbero dovuto sconsigliar loro di donare.
Dunque da tempo i
monaci ironizzavano sugli sguardi teneri che Berengario lanciava ad Adelmo, che
pare fosse di grande avvenenza.
Mentre Adelmo,
totalmente innamorato del suo lavoro, dal quale soltanto pareva trarre diletto,
poco si prendeva cura della passione di Berengario.
Ma forse, chi sa,
egli ignorava che l’animo suo, nel profondo, lo inclinava alla stessa
ignominia.
Fatto sta che Bencio
disse di aver sorpreso un dialogo tra Adelmo e Berengario, in cui Berengario,
alludendo a un segreto che Adelmo gli chiedeva di svelargli, gli proponeva il
turpe mercato che anche il lettore più innocente può immaginare.
E pare che Bencio
udisse dalle labbra di Adelmo parole di consenso, quasi dette con sollievo.
Come se, ardiva
Bencio, Adelmo altro in fondo non desiderasse, e gli fosse bastato trovare una
ragione diversa dal desiderio carnale per acconsentire. Segno, argomentava
Bencio, che il segreto di Berengario doveva riguardare arcani della sapienza,
così che Adelmo potesse nutrire l’illusione di piegarsi a un peccato della carne
per accontentare una voglia dell’intelletto. E, aggiunse Bencio con un sorriso,
quante volte lui stesso non era agitato da voglie dell’intelletto così violente
che per accontentarle avrebbe acconsentito ad assecondare voglie carnali non
sue, anche contro la voglia carnale sua stessa.
“Non ci sono
momenti,” chiese a Guglielmo, “in cui voi fareste anche cose riprovevoli per
avere tra le mani un libro che cercate da anni?”
“Il saggio e virtuosissimo
Silvestro II, secoli fa, diede in dono una sfera armillare preziosissima per un
manoscritto, credo, di Stazio o Lucano,” disse Guglielmo. Aggiunse poi, prudentemente:
“Ma si trattava di una sfera armillare, non della propria virtù.” Bencio ammise
che il suo entusiasmo lo aveva trascinato oltre, e riprese il racconto. La
notte prima che Adelmo morisse, egli aveva seguito i due, mosso dalla
curiosità. E li aveva visti, dopo compieta, avviarsi insieme al dormitorio.
Aveva atteso a lungo tenendo socchiusa la porta della sua cella, non lontana
dalla loro, e aveva visto chiaramente Adelmo scivolare, quando il silenzio era
calato sul sonno dei monaci, nella cella di Berengario. Aveva ancora vegliato,
senza poter prendere sonno; sino a che aveva udito la porta di Berengario che
si apriva, e Adelmo che ne fuggiva quasi di corsa, con l’amico che cercava di trattenerlo.
Berengario lo aveva seguito mentre Adelmo scendeva al piano inferiore. Bencio
li aveva seguiti cautamente e all’imbocco del corridoio inferiore aveva visto
Berengario, quasi tremante, che schiacciato in un angolo fissava la porta della
cella di Jorge. Bencio aveva intuito che Adelmo si era gettato ai piedi del
vecchio confratello per confessargli il suo peccato. E Berengario tremava,
sapendo che il suo segreto veniva svelato, sia pure sotto il sigillo del
sacramento”.
Come detto, attendo commenti e mi raccomando…fate iscrivere anche i
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e opinioni.
Un abbraccio
Stefano
#ilnomedellarosa #pedofilia #castita
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