C’era una volta una famiglia che aveva scelto il silenzio
del bosco al posto del frastuono della città. Anglo-australiani di origine, ma
radicati tra le colline d’Abruzzo, vivevano senza acqua corrente, senza luce
elettrica, senza televisione. Solo il canto degli uccelli, il crepitio del
fuoco e le parole di una maestra privata che insegnava ai bambini ciò che la
scuola non aveva mai potuto offrire.
Per anni la loro vita alternativa è scivolata come un
ruscello nascosto, lontano dagli occhi del mondo. Finché un giorno, un pasto di
funghi raccolti tra le foglie ha portato i piccoli in ospedale. Lì, la fragile
armonia si è incrinata: i medici hanno scoperto la scelta radicale dei
genitori, e il tribunale ha aperto le porte della legge.
Il Tribunale per i minorenni dell’Aquila ha visto in quella
libertà un pericolo:
l’assenza di confronto con altri bambini,
la mancanza di sicurezza della dimora,
il rifiuto dei controlli sanitari.
Così la potestà genitoriale è stata sospesa, e i figli
affidati a una struttura protetta, dove la madre li accompagna ancora, ma il
padre li vede di rado.
La vicenda ha acceso un fuoco di parole. C’è chi parla di
trauma, di sradicamento, di un intervento troppo duro. C’è chi ricorda altri
bambini, come quelli delle comunità Rom, che vivono nel degrado senza che lo
Stato intervenga con la stessa forza.
Il bosco di Palmoli diventa così simbolo di un conflitto
antico:
dove finisce la libertà di una famiglia e dove inizia il
diritto dei bambini a crescere protetti?
può la natura essere maestra sufficiente, o la società deve
sempre bussare alla porta?
Questa storia non è solo cronaca: è parabola. Ci parla di
radici e di ali, di genitori che cercano un mondo diverso e di istituzioni che
temono per il futuro dei più piccoli. Nel fruscio delle foglie resta la
domanda: quanto siamo disposti a lasciare che la libertà si intrecci con la
fragilità dell’infanzia?






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