venerdì 20 giugno 2025

ANCHE TU AMI SCRIVERE?

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Se anche tu ami scrivere non posso che darti il benvenuto (o la benvenuta) in questa che vuole essere una semplice e pacata riflessione.
Non conoscendoti, posso semplicemente partire dalla mia esperienza di scrittura e dalle profonde motivazioni che mi spingono a scrivere praticamente da sempre.
Sin da piccolino, alle scuole elementari, eccellevo nei temi nei quali mi sbizzarrivo a scrivere storie, spesso anche divertenti, al punto che, alla terza elementare (stiamo parlando degli anni ’60), il Maestro (che se non ricordo male si chiamava Dante) parlò molto bene di me al Preside e, dopo l’aver scritto un tema lungo e divertente, volle che lo leggessi a tutta la classe.

Qualcosa di analogo capitò all’esame di maturità dove, in una delle prove scritte (un tema di cultura generale), presi il massimo dei voti e ricevetti i complimenti della commissione ministeriale.

Però c’è da dire che, al di là dello scrivere, la passione principale, la vera base, è sempre stata la lettura.

Faccio fatica a capire come mai in questo periodo fanno la comparsa tanti scrittori (o aspiranti tali) che in vita loro non hanno mai letto un libro o, se ne hanno letto qualcuno, lo hanno fatto svogliatamente e in via del tutto eccezionale.

La lettura rappresenta le fondamenta della scrittura e chiunque ami scrivere deve sempre tenere a mente questo parallelo.

Tornando a me e facendo un salto nel tempo, essendo stato per oltre trent’anni un affermato sindacalista a livello nazionale nel Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, lo scrivere è divenuto quasi una professione in quanto un sindacalista, se vuole essere un bravo professionista, non può e non deve limitarsi a saper condurre un’assemblea oppure un convegno. Deve anche scrivere, scrivere e ancora scrivere.

Nel mio caso, negli anni ’90, sono stato direttore responsabile del periodico del sindacato autonomo CONFSAL-UNSA Beni Culturali e, in tale veste, sono stato iscritto all’Ordine dei Giornalisti.

Peraltro, sempre in quel periodo, alcuni miei scritti furono pubblicati su Quotidiani nazionali come, ad esempio, Il Sole 24 Ore.

In una fase successiva della mia vita ho poi scritto il mio vero e proprio libro autobiografico (adesso in vendita su Amazon con il titolo “Dentro la tana del lupo”) e inoltre, un libro in memoria di mio zio Erigo Benedetti, deceduto nel corso dell’ultimo scontro armato tra le forze italiane e quelle tedesche a guerra ormai terminata.

Anche questo libro è in vendita su Amazon e si intitola “L’ultima battaglia di un Ardito”.
Fatte queste premesse, torniamo alla domanda principale: anche tu ami scrivere? E per quale motivo?

Lo fai solo per il piacere di poter vedere la tua fatica in una libreria oppure perché hai sentito il bisogno interiore di mettere nero su bianco una storia, delle sensazioni, delle opinioni?
Penso che ciascuno di noi abbia un talento che deve essere coltivato. C’è che ama scrivere, chi ama suonare uno strumento, chi ama dipingere, etc.

Quindi la mia convinzione è che praticamente tutti noi esseri umani abbiamo un talento da coltivare e, se il tuo talento è la scrittura, allora che ben venga e il mio consiglio è di coltivarlo sempre, giorno dopo giorno.

Se però lo fai perché pensi che sia una facile strada per la notorietà o la ricchezza, allora devo darti una brutta notizia: per uno scrittore di fama ce ne sono centinaia (magari anche molto bravi) che però non riescono a decollare e questo per milioni di motivazioni.

La strada della scrittura è una strada meravigliosa e che potrà darti tanto ma, questo è almeno il mio consiglio, se sei all’inizio e non sei un nome conosciuto, non ti aspettare che in poco tempo centinaia di persone leggeranno la tua opera.

Naturalmente te lo auguro ma sappi che la vera fatica non è solo quella di scrivere ma è rappresentata da tutti i passaggi successivi che hanno lo scopo di farti conoscere a un pubblico sempre più vasto come ad esempio presentazioni o partecipazione a concorsi letterari (ve ne sono per varie categorie come ad esempio narrativa e poesia e anche specifici per scrittori esordienti).

Termino con il farti i miei più calorosi auguri per il tuo futuro.
Stefano





LO SCIOPERO È UN DIRITTO SANCITO DALLA NOSTRA COSTITUZIONE (MA SERVE BUON SENSO)

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un succedersi di scioperi in diversi settori, in particolar modo nei trasporti pubblici, con effetti che hanno avuto un impatto negativo notevole sulla vita quotidiana di tante persone. Quando treni, autobus e metropolitane si fermano, milioni di persone, tra lavoratori, studenti, famiglie e turisti, si trovano bloccati. 
È una situazione che crea un forte disagio e spesso anche un senso di abbattimento, soprattutto per chi già affronta difficoltà economiche o personali.
Questa realtà ci porta a riflettere sull’utilizzo dello sciopero, che è uno strumento fondamentale per i diritti dei lavoratori, sancito anche dalla nostra Costituzione. 
Lo sciopero ha radici profonde nella storia delle lotte sindacali e, in passato, ha fatto in modo che si raggiungessero conquiste importanti per la dignità del lavoro. 
Però, come ogni strumento potente, va usato con attenzione e responsabilità.
Questa forma di protesta è nata per dare voce ai lavoratori quando le condizioni di lavoro diventano insostenibili o quando i diritti vengono calpestati. È un mezzo di pressione diretto, che punta a costringere il datore di lavoro a sedersi al tavolo delle trattative. 
Negli ultimi tempi, però, sembra che questa funzione originaria si sia un po’ persa. Sempre più spesso gli scioperi, pur proclamati ufficialmente per legittime rivendicazioni lavorative, sembrano essere utilizzati a scopi di natura politica.
Sicuramente non c’è nulla di sbagliato nel voler esprimere un dissenso politico, ma quando lo sciopero si trasforma in uno strumento generico di protesta, rischia di perdere effetto. 
I cittadini, che ne subiscono le conseguenze immediate, possono iniziare ad avvertirlo come un intralcio anziché come una legittima difesa dei diritti e questo è particolarmente vero in un momento storico come quello attuale, in cui tante famiglie fanno già i conti con rincari, stipendi insufficienti e difficoltà quotidiane.
Il risultato non può che essere una crescente sfiducia nei confronti di questa forma di protesta, che rischia di allontanare proprio quel sostegno popolare che in passato ha reso gli scioperi così potenti. 
È un problema che non possiamo ignorare perché se lo sciopero perde il suo valore agli occhi dell’opinione pubblica, perde anche la sua forza come strumento di lotta.
Per questo motivo è importante che tutti i sindacati riflettano sull’uso dello sciopero e su come mantenerlo efficace. Non si tratta di rinunciare a questo diritto, ma di usarlo con criterio. 
Riservare lo sciopero a situazioni davvero critiche, dove tutte le altre vie si sono rivelate inutili, permette di preservarne il significato e la forza.
Ci sono infatti altre alternative che possono essere percorse come ad esempio Tavoli di confronto e negoziati, tutte forme di protesta meno invasive che sono strumenti che possono affiancare o, in certi casi, sostituire lo sciopero. La capacità di ottenere risultati non si misura solo dal numero di giornate di sciopero proclamate, ma dalla qualità del dialogo e delle soluzioni che ne derivano.
Lo sciopero deve tornare a essere uno strumento straordinario, da utilizzare solo quando non ci sono altre soluzioni. Non possiamo quindi permetterci che diventi un’abitudine, perché così facendo rischiamo di svuotarlo del suo significato e della sua forza.
L’obiettivo deve essere sempre quello di costruire un sistema più giusto, dove i diritti dei lavoratori siano considerati, ma anche dove il rispetto per i cittadini non venga mai meno perché alla fine, siamo tutti parte della stessa comunità e una comunità forte e coesa si costruisce attraverso il dialogo, il rispetto reciproco e la collaborazione.

giovedì 19 giugno 2025

IL MITO DEL POSTO FISSO: PERCHÉ IN ITALIA RESISTE E TORNA A SEDURRE NEL SECONDO MILLENNIO

 

«Io voglio fare il posto fisso». Così rispondeva un piccolo Checco Zalone, nel famoso film Quo Vado? al maestro che gli chiedeva cosa avrebbe voluto fare da grande. 

In effetti, in Italia il posto fisso, soprattutto nel settore pubblico, continua a essere considerato una meta ambita, simbolo di sicurezza e stabilità. Questa aspirazione, radicata nella cultura italiana da decenni, sembra resistere, se non rafforzarsi, nel contesto contemporaneo. Sorprendentemente, dopo un periodo di esaltazione delle libere professioni e delle carriere flessibili, si sta osservando una sorta di inversione di tendenza, con molti professionisti che abbandonano la libera professione per cercare un impiego stabile.

Ma perché il mito del posto fisso, soprattutto quello statale, esercita ancora un'attrazione così forte?

Innanzitutto vi è un fattore culturale, con una maggiore propensione alla ricerca del posto fisso nelle regioni del sud Italia. Persistono però molteplici altri fattori come, ad esempio, una maggiore sicurezza economica in un mondo incerto.

Infatti, l’instabilità economica e le crisi globali, come quella finanziaria del 2008 e la pandemia del 2020, hanno riportato al centro l’importanza della sicurezza del reddito. Il posto fisso garantisce stipendi regolari, benefit e tutele che molti liberi professionisti possono solo sognare e nel settore pubblico, questa sicurezza è ancora più marcata.

Da non sottovalutare poi i contratti blindati e difficili da rescindere e la pensione garantita con il relativo trattamento di fine rapporto.

Infine, vi è una maggiore resistenza ai licenziamenti rispetto al settore privato.

In un’epoca di precarietà e gig economy, il desiderio di stabilità diventa un valore irrinunciabile.

D’altro canto, per quanto riguarda la libera professione, c’è da dire che, nonostante la retorica degli ultimi anni abbia esaltato l’autonomia e la libertà di questa scelta, la realtà è spesso più complessa.

Ad esempio, la pressione fiscale è elevata: in Italia, i liberi professionisti devono affrontare una tassazione onerosa, unita a contributi previdenziali elevati.

Vi è poi una concorrenza e svalutazione del lavoro: in molti settori, il libero mercato ha portato a una corsa al ribasso sui prezzi, rendendo difficile mantenere guadagni dignitosi.

Infine, persiste una incertezza incessante, nel senso che non c'è garanzia di un flusso costante di lavoro e, di conseguenza, di reddito.

Questi fattori stanno spingendo molti professionisti a cercare rifugio in occupazioni stabili, spesso nel settore pubblico, percepito come un’oasi di tranquillità.

Bisogna poi considerare la tradizione culturale italiana nel senso che, come già accennato, il mito del posto fisso ha radici profonde nella cultura italiana, alimentato da decenni di politiche che hanno favorito l’impiego pubblico come strumento di stabilità sociale. Per molte famiglie, il lavoro statale rappresenta ancora un sinonimo di rispettabilità sociale in quanto è considerato una conquista personale e familiare.

Il posto fisso, soprattutto quello del settore pubblico, è quindi tornato ad esercitare un certo fascino poiché, oltre alla stabilità economica, offre vantaggi che lo rendono particolarmente attraente. Vi sono infatti orari regolari e possibilità di conciliare lavoro e vita privata. Possibilità di avanzamento di carriera che, pur essendo lento, è spesso definito e certo e minor pressione lavorativa rispetto a molte realtà del settore privato o freelance.

Non a caso, gli ultimi anni hanno visto un rilancio dei concorsi pubblici, con bandi per decine di migliaia di posti, incentivati dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Questa opportunità ha acceso le speranze di chi cerca una stabilità che nel settore privato fatica a trovare.

I giovani italiani, spesso definiti "bamboccioni" con un’accezione ingiusta, non cercano solo comodità, ma certezze in un contesto che ne offre sempre meno. La precarietà lavorativa e il costo della vita rendono il posto fisso una scelta quasi obbligata per poter pianificare il futuro, acquistare una casa o costruire una famiglia.

C’è però un prezzo da pagare per avere tutte queste certezze e mi riferisco alle retribuzioni che sono purtroppo ancora lontane dalla dignità.

Infatti, nel panorama del settore pubblico italiano, le problematiche legate alle retribuzioni sono una realtà che da anni affligge milioni di lavoratori, nonostante i numerosi proclami e promesse di riforma da parte della politica. 

La situazione resta critica, evidenziando un divario sempre più ampio tra le aspettative legittime dei lavoratori e le risposte che il sistema riesce a offrire.

I dipendenti pubblici italiani continuano a percepire salari che, nella maggior parte dei casi, non sono in linea né con il costo della vita né con il valore delle mansioni svolte. 

Se si guarda a livello europeo, l'Italia si colloca in fondo alla classifica per quanto riguarda la competitività delle retribuzioni nel settore pubblico.

Questa situazione risulta particolarmente grave in un contesto in cui l’inflazione erode quotidianamente il potere d’acquisto dei cittadini. 

Le retribuzioni non riescono a garantire una qualità di vita adeguata, costringendo molte famiglie a tagliare sulle spese essenziali. Per i lavoratori più giovani, questo significa anche ritrovarsi in difficoltà nel costruire un futuro solido, con difficoltà nell'acquisto di una casa o nell'avvio di una famiglia.

Vero è che esiste la possibilità di una carriera interna, attraverso appositi concorsi, che assicurano promozioni e aumenti salariali ma spesso ci si mette la burocrazia, con i suoi tagli di bilancio e una gestione inefficiente delle risorse, a portare i dipendenti a vivere un senso di frustrazione e demotivazione.

Per quanto riguarda le pensioni, la dolente nota riguarda la cosiddetta “liquidazione” che, nel Pubblico Impiego, viene corrisposta in tranche a distanza di anni dal momento del pensionamento. 

Questo ritardo genera non solo stress psicologico, ma anche un peggioramento delle condizioni di salute di chi, spesso in età avanzata, è costretto a continuare a lavorare in un contesto che non sempre tiene conto delle loro esigenze.

È necessario quindi che le istituzioni affrontino con urgenza il tema delle retribuzioni e della liquidazione nel settore pubblico, riconoscendo il ruolo fondamentale che questi lavoratori ricoprono per il funzionamento del Paese.

Non dimentichiamoci che il settore pubblico è il motore che garantisce servizi essenziali ai cittadini, dalla sanità all’istruzione, dalla sicurezza alla cultura. Trascurare i diritti economici di chi opera in questo ambito significa non solo tradire le aspettative dei lavoratori, ma anche minare la qualità dei servizi resi alla collettività.

È il momento di passare dalle parole ai fatti, mettendo al centro delle politiche pubbliche il benessere dei dipendenti e la dignità delle loro pensioni. Solo così si potrà costruire un sistema equo e sostenibile, capace di restituire fiducia e prospettive a chi ogni giorno lavora per il bene del Paese.